“Ce l’hai qualcosa da raccontare”? Chiede impaziente Antonio Capuano (Ciro Capano) al giovane Fabietto (Filippo Scotti), ma il ragazzo appare disorientato e intimorito dinanzi alle pressioni di quel grande regista napoletano. Ci troviamo in una scena finale di “È stata la mano di Dio”, l’ultima emozionante opera del regista premio Oscar de La grande bellezza che, dopo ventisette anni di carriera, dimostra di aver sempre avuto qualcosa da raccontare, commuovendo il mondo intero.
Vincitore del Leone d’Argento e del Gran Premio della Giuria alla 78° Mostra del Cinema di Venezia, e già per molti possibile vincitore agli Oscar 2022, il film “È stata la mano di Dio” è la più personale e sincera dichiarazione d’amore mai fatta da Paolo Sorrentino. In arrivo nelle sale dal 24 novembre, e in streaming su Netflix dal 15 dicembre, mettiamo un attimo da parte scene surreali e personaggi grotteschi tipici del cineasta e caliamoci in una storia di formazione più intima, commovente ed emozionante che mai.

Circondato dal fascino di una caotica Napoli degli ‘80, e dall’affetto di una grande famiglia, incontriamo il protagonista di questa storia, qui abilmente interpretato dal giovane attore emergente Filippo Scotti (“1994”, “Luna Nera”). Fabietto sta vivendo quel periodo della vita dove ogni novità è sempre una grande scoperta mossa da un’insaziabile curiosità e attrazione per l’ignoto.
Insieme alle sue inseparabili cuffiette del walkman, il ragazzo osserva e studia ogni cosa da lontano. Il volto sereno della mamma Maria (Teresa Saponangelo) quando ride e scherza con il padre Saverio (Toni Servillo), il sensuale corpo della disinibita zia Patrizia (Luisa Ranieri) dalla quale è terribilmente attratto, e persino l’incertezza nello sguardo del fratello Marchino (Marlon Joubet) che non riesce a realizzarsi come attore.
Per il timido e inesperto diciassettenne è però anche tempo di attese, come quella di scoprire se il suo idolo calcistico Diego Armando Maradona arriverà per davvero come si vocifera nella squadra del cuore, e se riuscirà mai a scoprire quale potrebbe essere il suo posto nel mondo una volta completata la maturità. Ma se da una parte la prima attesa che sembrava impossibile si realizza, dall’altra un’inaspettata tragedia familiare sembra sbarrargli la strada per la realizzazione del proprio futuro.
Spaesato, sconvolto e arrabbiato, Fabietto si chiude in se stesso in un lungo silenzio interiore, senza però capire che quell’incidente domestico in realtà sta per stravolgergli la vita in meglio. “È stata la mano di Dio!” esclama il disilluso zio Alfredo (Renato Carpentieri) quando si rende conto che è proprio grazie al dio del calcio, Maradona, se il nipote si è salvato da un tragico destino. Che si tratti effettivamente di Dio, o di un gioco di parole, Fabio questo non lo sa, ma è comunque stato salvato dalla morte. Permane tuttavia l’incertezza della vita, e la consapevolezza di dover diventare presto adulti in una realtà che non fa per lui.
Ripensando quindi alle parole del grande Fellini “La realtà è scadente“, autore omaggiato in gran parte dell’opera, al ragazzo non resta che superare la sua malinconia e rimboccarsi le maniche per inseguire una realtà diversa, sicuramente una più bella perché immaginaria, perché fatta di cinema.

E a proposito di cinema, citando la nostra commedia all’italiana, Sorrentino costruisce la prima parte del film su battute esilaranti e iconici personaggi fuori dagli schemi. Non solo un losco San Gennaro (Enzo De Caro) in carne ed ossa pronto a fregare la bella zia Patrizia con i miracoli de “u’ munaciello” incappucciato, ma anche la dolce signora Gentile che manda tutti a quel paese, e la splendida coppia di cugini Luisella ed Aldo, di cui quest’ultimo dalla salute davvero invidiabile.
Si alterna così, in un gioco di luci e ombre, di citazioni e simbolismi, il contrasto tra dramma e commedia nell’opera di Sorrentino. Entriamo nei suoi ricordi d’infanzia, da una Piazza del Plebiscito in festa, ai palazzi sul lungomare, da una clinica psichiatrica a una indimenticabile partita di calcio vista allo stadio.
Queste le personalissime visioni del cineasta napoletano che, tornando indietro nel tempo, condivide con noi l’origine dei suoi contrasti interiori, oggi fil rouge della sua intera poetica cinematografica.
E anche se sarebbe bello che l’inquadratura in dissolvenza con il volto di Fabio sul treno e “Napule è” in sottofondo non finisse mai, quasi a ricordarci un malinconico Timothée Chalamet sul finale di Chiamami col tuo nome, adesso è tempo di partire e sfidare l’ignoto. L’importante è ricordare che mai dopo nessuna perdita, nemmeno quella più dolorosa, smettiamo di essere complici di chi si è amato.
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