I Bridgerton sono esistiti davvero?
“Bridgerton è una storia vera?”. La domanda sorge spontanea, come diceva Antonio Lubrano, nelle spettatrici e negli spettatori che si dedicheranno alla visione della seconda stagione disponibile su Netflix a partire dal 25 marzo 2022.
Tratta dalla serie di romanzi omonima firmata dall’autrice americana Julia Quinn, Bridgerton è approdata per la prima volta sullo schermo lo scorso 25 dicembre 2020 grazie all’adattamento di Shondaland. Da quando Shonda Rhimes e la sua casa di produzione hanno traslocato da Disney a Netflix nell’agosto di tre anni fa, Bridgerton è parso da subito la più interessante tra i progetti in cantiere.
Continua a leggere l’articolo per scoprire se Bridgerton è tratto da una storia vera!
Cosa c’è di vero in Bridgerton
Difficile non lasciarsi conquistare dall’atmosfera della Londra di inizio Ottocento, ai tempi dell’età della Reggenza. Partiamo dal contesto storico. Nel 1813, anno in cui la prima stagione è ambientata, il re Giorgio III era effettivamente afflitto da una serie di malattie fisiche e mentali (“porfiria”, fu la diagnosi al tempo) che non gli consentirono di esercitare i compiti da monarca. Per questo, con la legge Regency Bill promulgata nel 1789, un altro membro della famiglia reale fu chiamato a farne le veci.
Se nella serie televisiva, ad assumere la reggenza fu Carlotta di Meclemburgo-Strelitz (interpretata da Golda Rosheuvel), nella realtà è stato il Principe Giorgio IV, primo figlio dei reali nonché erede al trono, a divenire il Principe Reggente fino alla morte del padre avvenuta nel 1820.
A Carlotta spettò la tutela del marito, ma non il titolo reale di Reggente. C’è un aspetto che la serie televisiva ha voluto portare sullo schermo. È ancora vivo il dibattito sulle ricostruzioni di alcuni storici tra cui Mario de Valdes y Cocom, che vedrebbero l’ascendenza della Regina Carlotta ascrivibile alla regione africana, sub o nord-sahariana.
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Nella serie televisiva, è l’attrice afro-britannica Golda Rosheuvel a portare in scena la Regina Carlotta, una donna nera la cui unione con il re Giorgio III, un bianco, ha rappresentato un momento di svolta e di unione per la società multietnica della finzione di Bridgerton come spiega Lady Danbury (Adjoa Andoh) a Simon Basset (Regé-Jean Page).
La storia vera di Bridgerton, parola di Chris Van Dusen
Se il contesto conserva dei tratti fedeli alla vicenda storica, “Bridgerton non è di certo una lezione di storia” ribadisce con un sorriso Chris Van Dusen, creatore e showrunner della serie, nel corso di un incontro con la stampa a cui ha preso parte anche Tvserial.it. “Il nostro obiettivo è stato quello di sposare la storia con la fantasia” ha aggiunto l’autore.
Concorda Will Hughues-Jones, production designer della serie. “Bridgerton è per la maggior parte del tempo fedele al periodo storico in cui la serie è ambientata”. Hughues-Jones spiega che quest’attinenza cede spesso e volentieri il passo alle esigenze di copione “A volte la storia è noiosa e diventa un intralcio” dice il designer di produzione, che spiega qual è l’obiettivo: “Rendere la serie appagante per il nostro pubblico”.
Una cosa è certa: tolti i reali, i personaggi della serie non sono realmente esistiti. “Non ci risulta che esistesse una famiglia di nome Bridgerton nella Londra dell’età della Reggenza” chiarisce Chris Van Dusen, che si è innamorato di questa storia leggendo i romanzi di Julia Quinn. “Sapevo che potevamo realizzare una serie che non fosse il solito sceneggiato in costume” ammette Van Dusen che paragona la visione della serie alla lettura di un romanzo rosa.
Non è la solita serie in costume
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Per questa ragione, lo showrunner ha voluto infondere nell’adattamento televisivo elementi che rendessero la storia attuale, contemporanea, e piena di momenti provocatori. “Scriverli mi ha fatto arrossire” rammenta Chris Van Dusen, secondo il quale Bridgerton rappresenta la totale evasione: “È esattamente quello di cui abbiamo bisogno in questo momento”. Divertente, sensuale, e affascinante: a differenza dei soliti period drama, Bridgerton assume una cifra stilistica che sin dal principio rende netta la linea di demarcazione che la separa dalle serie di genere.
“L’età della Reggenza fu un’era così decadente ma al contempo pieno di glamour, di eccessi, che non era mai stato esplorato prima d’ora” racconta Chris Van Dusen motivando la decisione di portare sullo schermo quello specifico periodo storico. Si tratta comunque di un commento sulla società contemporanea: “La serie apre ad un mondo molto più ampio che raggiunge i giorni nostri” ammette lo showrunner, per il quale Bridgerton non si limita alle vicende della famiglia eponima.
“Ho voluto conferire alla serie un tono giocoso che raramente caratterizza le serie in costume” racconta Tom Verica, veterano regista di Shondaland nonché volto del diabolico Sam Keating ne Le regole del delitto perfetto. Proprio con quest’ultima e con la sua esperienza con la televisione generalista, Verica traccia un paragone: “Nelle serie in onda sui grandi network si ha spesso la sensazione di essere troppo incasellati” ammette il regista. “Prima di Bridgerton non avevo mai avuto l’occasione di girare in set così maestosi, e di soffermarmi su dettagli che conferiscono al risultato finale un valore di profondità” racconta Tom Verica.
Shondaland, pioniera dell’inclusività
Durante i casting dell’episodio pilota di Grey’s Anatomy nel 2004, Shonda Rhimes fu tra le prime a sostenere la pratica del casting non tradizionale, che consiste nell’assegnare la parte all’interprete più meritevole senza porsi limiti legati all’etnia, al genere, all’identità o all’orientamento sessuale di quest’ultimo. La diversity resta una delle colonne portanti di Shondaland e il cast di Bridgerton lo riflette, come ricorda Chris Van Dusen.
Il co-protagonista maschile al fianco di Phoebe Dynevor è Regé-Jean Page nei panni di Simon Basset, il Duca di Hastings. Il trentenne attore afro-inglese è nato in Zimbabwe; prima di Bridgerton, aveva già preso parte ad una serie Shondaland: si tratta di For The People, trasmessa fino al 2018 da ABC e inedita in Italia.
Dalla musica in Bridgerton ai costumi: “Tutto scintilla”
Nel corso del primo episodio, ad un ballo dell’alta società di Mayfair i giovani rampolli e le giovani debuttanti danzano sulle note di una versione ad archi di “Thank u next”, la hit di Ariana Grande uscita nel 2018. “Tutto scintilla, nel nostro mondo” racconta Chris Van Dusen nel soffermarsi a commentare il tono suadente, rapido, brillante che fornisce alla serie un ritmo che ricorda quello di The Marvelous Mrs. Maisel e Una mamma per amica, le creature di Amy Sherman e Dan Palladino.
Inserire canzoni contemporanee nella serie “È un elemento scaturito dall’evoluzione del progetto” racconta Van Dusen, che ammette che la trovata arrivò guardando i primi tagli della serie. “Questo tocco fresco ci ha permesso di rendere Bridgerton diversa da qualsiasi altra serie” spiega lo showrunner. La scelta racchiude il vero spirito della serie: “Infondere in elementi storicamente accurati la nostra visione contemporanea per consentire allo spettatore di riconoscersi.” spiega Van Dusen.
“Quello di Bridgerton è un mondo sontuoso, lussureggiante di totale evasione nel quale lo spettatore si può immergere e dimenticare tutti i suoi problemi” riassume Chris Van Dusen.
“Cosa farebbe Shonda?” è la domanda che si poneva Ellen Mirojnick, costume designer della serie, ogni qual volta si trovava di fronte ad un dilemma. “Giovane, fresca e aspirazionale”: l’estetica della serie rispecchia alla perfezione il canone Shondaland. Gli abiti d’epoca, pur rispettando la silhouette del 1813, sono sgargianti, con palette di colori moderni.
I capi della serie dovevano portare sullo schermo modelli che vorrebbero indossare anche le ragazze di oggi. “Se chi guarda la serie ama il nostro mondo” spiega Mirojnick, che aggiunge: “Allora svilupperà un legame sentimentale e pertanto vorrà vestirsi come quei personaggi per assomigliare loro. I nostri abiti sono molto rilevanti per il mondo contemporaneo”.
“Questa è stata la serie più ampia, più vasta e più favolosa di tutta la mia carriera” confessa Mirojnick che quantifica “L’impresa di una vita”, come lei l’ha definita: 7500 costumi realizzati in poco più di cinque mesi. Di questi, 700 appartenevano all’area dei personaggi principali. “Ciascun capo è stato cucito addosso al personaggio” racconta con fierezza la costume designer, che conclude: “Nulla è stato lasciato al caso”.
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