“When there’s nothing left to burn, you have to set yourself on fire” è il verso che apre la canzone intitolata “Your Ex-Lover Is Dead” con la quale il gruppo indie canadese The Stars ottenne un certo successo nel 2005, sbucando persino – tre anni più tardi – nella colonna sonora di “Caos Calmo”, il film di Antonello Grimaldi con Nanni Moretti.
“Quando non è rimasto più niente da bruciare, devi appiccare fuoco a te stesso” è anche un po’ il leitmotiv di “House of the Dragon”, il primo spin-off di “Game of Thrones” a vedere la luce a più di tre anni dal controverso epilogo della serie originale.
L’antefatto della vicenda dei Targaryen, al via su Sky e Now a partire dal 22 agosto a cadenza settimanale, vede gli antenati di Daenerys pronti a mettere a ferro e fuoco le loro esistenze pur di sedersi sul mitologico Trono di Spade. Non ci possono essere perdenti a questo gioco, perché è meglio incendiare il proprio mondo anziché metterlo in mani altrui.
Con l’intento di gettare le fondamenta di un vero e proprio franchise – l’unica vera valuta di scambio nelle guerre dello streaming tra piattaforme -, HBO non ha ceduto alla fretta. È per questo che Casey Bloys, il presidente della programmazione originale di Home Box Office – riconfermato nel ruolo per altri cinque anni da David Zaslav, CEO della neonata Warner Bros. Discovery – ha dimostrato nervi saldi quando nel 2019 accantonò “Bloodmoon”, il primo progetto spin-off da “Il Trono di Spade” diretto da S.J. Clarkson.
Con un budget che si diceva aggirarsi attorno ai 35 milioni di dollari e riprese che interessarono anche la zona di Gaeta, l’episodio zero era un prequel ambientato due millenni prima degli eventi di “Game of Thrones” e incentrato sulle vicende degli Estranei. Nel cast figurava anche Naomi Watts. Nonostante i migliori auspici, Bloys e HBO non ritennero il progetto all’altezza degli standard a cui hanno abituato gli abbonati e i fan di “Game of Thrones”.
Tutt’altra storia è quella di “House of the Dragon”, la cui ideazione ha visto coinvolto l’autore George R. R. Martin in persona. Il deus ex machina de “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” ha lavorato insieme ai co-showrunner Ryan Condal e Miguel Sapochnik per confezionare una serie che sapesse riconquistare un pubblico disamorato dopo il finale dell’ottava stagione di “Game of Thrones”.
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“Il futuro è nel passato”, era solito dire Ted Sarandos, il co-CEO di Netflix, nello spiegare la strategia della piattaforma per i loro contenuti originali. Ecco che, per riportare al centro dello zeitgeist culturale “Game of Thrones”, si è scelto di ripartire proprio dalla pietra dello scandalo: Daenerys Targaryen (Emilia Clarke), il personaggio più potente della serie e quello più bistrattato nel corso dei due episodi conclusivi, raccontando la disfatta della sua famiglia.
In “House of the Dragon” si compie un salto indietro di 172 anni rispetto alla nascita di Daenerys. Il suo antenato Viserys (Paddy Considine, visto nella terza stagione di Peaky Blinders) brama un erede maschio che gli succeda al trono e riporti la quiete nel suo turbolento regno. La pace a Westeros è precaria e nessuno sembra prendere sul serio Rhaenyra (interpretata dall’attrice australiana Milly Alcock), l’unica figlia del re, come possibile futura sovrana. A Rhaenyra interessa viaggiare in sella a Syrax, il suo drago, per evadere dalle pressioni reali.
Quando una tragedia travolge la vita della casata reale dei Targaryen minacciando il suo futuro, per Rhaenyra si prospetta l’eventualità di diventare la prima donna a sedere sul Trono di Spade nella storia di Westeros. Perché questo accada andrebbe scalzato suo zio, l’ambizioso Daemon (Matt Smith, che dopo The Crown torna a prestarsi agli intrighi di palazzo), e la cugina di secondo grado Rhaenys (l’attrice Eve Best, che da qualche anno ha acquistato un casolare nelle Marche dove si dedica anche alla produzione di olio d’oliva), conosciuta come “La Regina che non è mai stata”.
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A quest’ultima – dieci anni prima – fu preferito il cugino Viserys, nonostante il trono spettasse a lei di diritto. Al tempo il nonno sovrano Jaehaerys rimise la volontà al concilio dei Sette Regni, anziché affidarsi alla sua stessa famiglia. I Targaryen sono la più grande minaccia al loro stesso futuro.
Se confrontata con l’altra serie fantasy più attesa dell’anno – “Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere”, al debutto a settembre – il budget di “House of the Dragon” è quasi conservativo: poco meno di 200 milioni di dollari per dieci episodi, meno della metà rispetto ai 462 milioni che Prime Video ha speso per la sola prima stagione. Cifre impensabili fino a dieci anni fa. L’episodio pilota di “Game of Thrones” (girato due volte) costò a HBO dieci milioni di dollari: hubris, chiosavano al tempo le malelingue.
Resta da vedere se il costo delle future stagioni di “House of the Dragon” subirà variazioni: Zaslav e Gunnar Wiedenfels, CFO di Warner Bros. Discovery, sono determinati a raggiungere un risparmio di 3 miliardi nei prossimi mesi, tra ridondanze e strutture che si sovrappongono. I servizi streaming HBO Max e Discovery+ si fonderanno in un’unica soluzione al debutto nell’estate 2023 negli Stati Uniti. Per l’Italia lo scenario è in divenire, ma una cosa è certa: le serie HBO resteranno su Sky almeno fino al dicembre 2025.
Per queste ragioni, l’operazione “House of the Dragon” – nata, approvata e girata in piena pandemia – non può fallire e deve rappresentare l’inizio di una nuova era di successo per l’agglomerato Warner Bros. Discovery. Altro che Westeros: le botte tra streamer sono ben più avvincenti.
In questa scacchiera globale dove ogni titolo può rappresentare la mossa vincente, “House of the Dragon” riesce a sostenere il peso delle attese offrendo a chi guarda uno spettacolo fantasy suggestivo che, tolti i draghi, è molto più Shakespeariano della serie originale. Lo spin-off riesce lì dove la serie madre ha fallito, proponendo diversi modelli di eroina – da Rhaenyra a Rhaenys, passando per Alicent (Emily Carey) – che non esistono con il solo intento di agevolare il plot delle loro controparti maschili.
Resta un problema legato al trauma porn. Sebbene le scene sessuali, a detta di registi e creatori della serie, siano meno soventi per smentire chi attribuisce a “GoT” un successo in gran parte voyeuristico, permane in “House of the Dragon” il ricorso alla violenza e all’elemento gore per i quali il pubblico di “Game of Thrones” potrebbe essere ormai vaccinato dai tempi del Nozze di Sangue, ma che continua ad essere uno scotto pagato, maggiormente, dai personaggi femminili.
Mentre ci prepariamo a gustarci un appuntamento settimanale che a partire dal 22 agosto proseguirà fino a metà ottobre su Sky e Now – l’attesa per la seconda stagione si protrarrà fino al 2024, siete avvisati – HBO ha già in cantiere vari progetti ispirati al mondo “GoT”.
Dallo spin-off su Lord Corlys (Steve Touissant) fino ad un lungometraggio animato sulla terra di Yi Ti, passando per la serie sequel dedicata a Jon Snow, sono molti i titoli che affiancheranno “House of the Dragon” nell’espandere i confini del mondo televisivo di George R. R. Martin.
Se quello che vedremo si avvicinerà alla resa di “House of the Dragon”, dalle parti di HBO e Westeros possono dormire sonni tranquilli.
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