La prima puntata di The Carrie’s Diaries, andata in onda in America il 14 gennaio, è stata un flop totale: appena 1,6 milioni di telespettatori. Il telefilm, tratto dall’omonimo romanzo di Candace Bushnell, è il prequel di Sex and the City, la famosa serie tv trasmessa dalla HBO dal 1998 al 2004 che ha trasformato il modo in cui le donne venivano raccontate e si raccontavano nel piccolo schermo. The Carrie Diaries è ambientato nel 1984 quando la nostra amata Carrie (interpretata da Anna Sophia Robb) aveva 16 anni, viveva ancora in Connecticut con il padre e la sorella, e da pochi mesi aveva perso la madre.
Per aiutarla a superare la perdita della madre, il padre di Carrie le ragla uno stage come archivista in un’importante studio legale di Manhattan. E lì nasce l’amore per New York. Durante la pausa pranzo la liceale del Connecticut entra in un grande magazzino, e toh, conosce Larissa Loughton, editor di Interview (per intenderci, il magazine fondato da Andy Warhol) che la invita ad un big party in un ristorante Indocinese. La nostra Carrie, mondana sin dalla tenera età, non può perdersi un’occasione del genere. Così, nel bel mezzo della night life newyorkese degli anni ’80, una sedicenne di provincia si ritrova a bere champagne con artisti, designer, scrittori, musicisti, senza nemmeno un accenno alle droghe, al sesso e alla trasgressione di quel periodo. Non vi pare un tantino forzato? Ma vabbene così, lasciamo agli ideatori della serie (tra i quali Amy Harris, già co-producer di Sex and the City) il beneficio del dubbio.
Pur di restare nella Grande Mela, però, la nostra Carrie ha rinunciato al ballo di apertura dell’anno scolastico e soprattutto ha rinunciato ad andarci con lui, il Troty Mounth del Connecticut, Sebastian Kydd (il cui nome potrebbe essere quello di un gruppo punk anni ’80). Sebastian, però, non è il Mr. Big della situazione (almeno, non ancora). Non solo perché è giovane e biondo, ma perché è la nostra Carrie ad essere diversa: è molto più interessata a Manhattan che intrattenere una relazione con un coetaneo, anche se parecchio belloccio e desiderato da tutte le ragazze della scuola.

Sullo sfondo, poi, ci sono il dramma per la perdita della madre, il rapporto difficile con la sorella Dorrit, le storie sentimentali delle amiche, Mouse, che ha perso la verginità con un ragazzo che poi è sparito e Maggie, fidanzata con Walt, in odore di omosessualità. Insomma, a giudicare dalla prima puntata The Carrie Diaries sembra niente altro che un teen drama come tanti altri, ma con l’aggiunta dei lunghi monologhi della nostra Carrie. E fa piuttosto impressione sentire certe riflessioni sui massimi sistemi, e poi veder la protagonista camminare per i corridoi della scuola, piccola e (diciamocelo pure) per nulla somigliante alla Carrie Bradshaw che abbiamo conosciuto nel ’98. Ultima cosa, con tutta la buona volontà, le musiche ad hoc, i manifesti in camera delle due ragazze (la sorella Dorrit è ribelle e ascolta i Depeche Mode e i Cure), i Rolling Stone Magazine d’annata, devo proprio sforzarmi di credere che siamo nel lontano 1984 e che da un momento all’altro non spunterà un telefonino cellulare o il buon vecchio Mac della nostra Carrie, mentre fuma Marlboro light.
È anche vero che nonostante il flop, la serie ha ricevuto buone critiche da parte dei più importanti siti americani che si occupano di televisione, quali The Hollywood Reporter e TV Line. In effetti, a giudicare dalla prima puntata non sembra un brutto telefilm, è solo che il pubblico a cui è destinato (giovanissimi) conosce troppo poco Sex and the City, e di sicuro non l’ha amato così come le trentenni o le coetanee di Carrie. Detto questo, veniamo alla battuta più bella della puntata: Larissa fa recapitare a Carrie un vestitino fucsia e nero, Carrie dice alla sua boss che è un regalo da parte di suo padre: “è per il ballo della scuola”. Titubante, la boss le risponde: “Indosserai quello per il ballo scolastico? Non lo farei mai. Sembra qualcosa che indosserebbe una cantante. E sai chi. Quella che… ha usato il nome di Gesù invano”. “Madonna?”, “Sì”. Allora è vero, siamo proprio nel 1984!