Alpha, un incubo marmoreo incompiuto: recensione
Julia Ducournau, la regista francese che ha scioccato e affascinato il mondo con “Raw” e “Titane” (vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2021), torna a turbare gli animi con “Alpha“. Un’artista indubbiamente audace, che non teme di esplorare i territori più oscuri dell’esistenza, Ducournau si confronta, in “Alpha”, con il delicato tema dell’AIDS, trasfigurandolo in una cupa allegoria intrisa di body horror e dramma familiare. Tuttavia, nonostante le ambizioni, il film si rivela un’opera imperfetta, soffocata da un’eccessiva stratificazione di significati e da una narrazione fin troppo criptica. I Wonder Pictures porta il film in Italia dal 18 settembre 2025.
Un’epidemia silenziosa: il contagio della paura incompiuto
“Alpha” ci trasporta in un’epoca volutamente indefinita, che evoca, in modo vago, le paure degli anni ’80 e ’90, segnata da una misteriosa epidemia che trasforma i corpi degli infetti in statue di marmo. Più che una rappresentazione significativa dell’AIDS, Ducournau sembra interessata a creare un’allegoria sul contagio della paura e del pregiudizio. Al centro della storia troviamo Alpha, una ragazzina di 13 anni che, in un gesto di ribellione adolescenziale, si fa tatuare con un ago sporco durante una festa. La paura di aver contratto il virus, però, anziché diventare un potente motore narrativo, si perde in un labirinto di simbolismi e metafore fin troppo esplicite.
Anime prigioniere: il peso di un passato non elaborato
La paura di Alpha si intreccia con la presenza ingombrante dello zio Amin, un tossicodipendente consumato dall’AIDS, che irrompe nella vita della famiglia. Amin, più che un personaggio tridimensionale, appare come una figura allegorica del dolore e della vergogna. La sua sofferenza, pur palpabile, non riesce a suscitare una vera empatia nello spettatore.
Performance Attoriali: Un’Amalgama di Dolore e Fragilità, con Alcune Riserve
Le performance attoriali in “Alpha” rappresentano un elemento contrastante. Se da un lato si percepisce l’impegno profuso dagli interpreti nel calarsi nei ruoli, dall’altro emerge una certa difficoltà nel trasmettere la complessità emotiva dei personaggi. Mélissa Boros, al suo debutto cinematografico, si confronta con la sfida di interpretare Alpha, una ragazzina in preda alla paura e all’incertezza. Tuttavia, la sua interpretazione, pur volenterosa, appare a tratti acerba, priva della sfumatura necessaria per rendere appieno le fragilità e le contraddizioni del personaggio. Golshifteh Farahani (vista in “Paterson”) offre una performance più matura e intensa nel ruolo della madre di Alpha, una dottoressa combattuta tra l’amore per la figlia e il senso di colpa per il fratello. Farahani riesce a comunicare il dolore e la frustrazione di una donna intrappolata in un ruolo di sacrificio, ma anche la sua fatica nel gestire un passato ingombrante. Tahar Rahim (“Il profeta”) si confronta con la difficile sfida di interpretare Amin, un tossicodipendente consumato dall’AIDS. Rahim si impegna a fondo per rendere credibile la sofferenza fisica e psicologica del personaggio, ma la sua interpretazione, pur apprezzabile, rimane confinata nei limiti di un ruolo eccessivamente schematico e prevedibile. In definitiva, le performance attoriali in “Alpha” si rivelano un’amalgama di impegno e fragilità, un quadro a chiaroscuri che riflette le incertezze e le debolezze di un film dalle grandi ambizioni, ma dai risultati non del tutto convincenti.
La regia di Ducournau: l’estetica della sofferenza fine a sé stessa
La regia di Julia Ducournau, pur mostrando lampi di talento, si rivela, in “Alpha”, eccessivamente compiaciuta e manieristica. L’uso insistito di immagini disturbanti e di simbolismi fin troppo evidenti finisce per svuotare la narrazione di ogni autenticità emotiva. La sua estetica, in questo caso, si trasforma in una mera ostentazione di sofferenza.
Il body horror come gratuito orpello
Il body horror, elemento distintivo del cinema di Ducournau, anziché arricchire la narrazione, appare come un gratuito orpello, un’esibizione fine a sé stessa. La trasformazione dei corpi in statue di marmo, lungi dall’essere una metafora potente, si riduce a un mero esercizio di stile, privo di una reale risonanza emotiva.
Simbolismi e allusioni: un’eccessiva stratificazione
“Alpha” è un film fin troppo denso di simbolismi e allusioni, un’eccessiva stratificazione che finisce per confondere e disorientare lo spettatore. L’intento di creare un’opera complessa e ricca di significati si traduce in un incomprensibile ammasso di idee che si annullano a vicenda.
La confusione temporale come pretesto narrativo
La narrazione frammentata e la confusione temporale, anziché arricchire la comprensione della storia, appaiono come un mero pretesto narrativo, un tentativo di mascherare la fragilità della sceneggiatura e la superficialità dei personaggi.
La catarsi mancata: un finale insoddisfacente
Il finale, aperto e ambiguo, anziché stimolare la riflessione, lascia nello spettatore un senso di profonda insoddisfazione. La catarsi, promessa ma mai realizzata, si trasforma in un’occasione mancata per dare un senso compiuto alla storia.
Cosa mi è piaciuto:
- L’audacia di Julia Ducournau nell’affrontare temi complessi e controversi.
- L’impegno degli attori nel dare corpo a personaggi difficili e tormentati.
- Alcuni lampi di regia, che mostrano il talento visivo di Ducournau.
Cosa si sarebbe potuto fare meglio:
- Una maggiore chiarezza nella narrazione, evitando un’eccessiva stratificazione di simbolismi e metafore.
- Un approfondimento dei personaggi, rendendoli più realistici e meno schematici.
- Un utilizzo più equilibrato del body horror, evitando l’ostentazione gratuita della sofferenza.
- Una sceneggiatura più solida e coerente, capace di dare un senso compiuto alla storia.
- Un finale meno ambiguo e più stimolante.
Verdetto finale: un’occasione mancata
“Alpha” è un’opera ambiziosa ma imperfetta, un tentativo fallito di affrontare un tema complesso e delicato come l’AIDS. Nonostante l’indubbio talento di Julia Ducournau e l’impegno degli attori, il film si rivela un’esperienza cinematografica deludente, soffocata da un’eccessiva stratificazione di significati e da una regia fin troppo compiaciuta. Un’occasione mancata per esplorare la paura, il dolore e la vergogna che accompagnano la malattia.
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