Honey Don’t!, la recensione del nuovo film di Ethan Coen
Dopo l’anteprima mondiale al Festival di Cannes 2025, Honey Don’t! arriva anche in Italia, distribuito da Universal Pictures, dal 18 settembre al cinema. Diretto da Ethan Coen e scritto insieme a Tricia Cooke, il film vede protagonista Margaret Qualley nei panni di Honey O’Donahue, un’investigatrice privata che vive nella calda e polverosa Bakersfield, in California. Il cast è impreziosito dalla presenza di Aubrey Plaza nel ruolo di MG Falcone e da un sorprendente Chris Evans, qui nei panni del carismatico ma inquietante reverendo Drew Devlin.
Honey Don’t! è una commedia dark che mescola noir, pulp e humor grottesco. La storia segue Honey, detective che indaga su una serie di misteriosi omicidi collegati a una chiesa locale, il Four-Way Temple, guidata da Devlin. Sullo sfondo, un’America assolata, senza ombra, in cui la luce accecante sembra diventare una metafora del peso del passato e della ricerca di redenzione.

Un noir rivisitato che funziona a metà
Dopo Drive-Away Dolls, la collaborazione tra Margaret Qualley ed Ethan Coen prosegue e il risultato è – purtroppo – altrettanto deludente. La storia di Honey Don’t! è molto semplice e lineare. Racconta di un’investigatrice privata che bazzica in una cittadina californiana immaginaria. È un luogo assolato, senza alberi, dove non c’è ombra. La fotografia è patinata, illuminata da una luce che dà la sensazione di avere sempre il sole contro. Un bianco accecante, quasi fastidioso per chi ha gli occhi delicati.
Occhi brillanti di luce come quelli di Qualley, ormai sempre più affermata, che interpreta Honey, un personaggio definito butch-femme, in contrapposizione alle classiche femme-fatale degli anni ’90-2000. Ethan Coen e Tricia Cooke scelgono di rendere affascinante e glamour un personaggio radicato in una piccola cittadina, creando un’identità attraente ma credibile nel contesto di Bakersfield. Coen ha sottolineato come Honey sia rimasta in città per proteggere la sorella Heidi (Kristen Connolly) e i suoi nipoti: un legame profondo, nato da un’infanzia segnata da abusi, che tiene Honey ancorata a quel luogo anche se tutto in lei suggerirebbe che fosse destinata a una vita altrove.
La stessa Qualley si è detta entusiasta della sceneggiatura e dei dialoghi, un tratto sempre distintivo di Coen, che porta avanti un umorismo pulp godibile. Honey diventa così una rivisitazione queer della classica detective noir: “Honey è una detective, ispirata un po’ ai vecchi protagonisti maschili del film noir, solo che Honey è una donna, ed è lesbica.”
La detective si trova alle prese con la morte di una ragazza e deve affrontare un’indagine che porta alla scoperta di una serie di omicidi legati a una misteriosa chiesa locale. Questa setta è guidata dal reverendo Drew, interpretato da un esuberante Chris Evans. La trama intorno a Drew è ben definita ma anche comica, e la chiesa – il “Four-Way Temple” – diventa un vero e proprio personaggio del film. Le sequenze con Evans sono esilaranti e al limite del grottesco, ma la sua presenza sembra più una scelta di marketing per attirare pubblico che una necessità narrativa.
Il reverendo è un personaggio ipocrita, che predica la sottomissione all’Onnipotente mentre esercita una sottomissione carnale e sessuale con le sue fedeli. Dietro di lui si nasconde un giro di affari illegali, traffici di droga e omicidi che coinvolgono un gruppo chiamato “I Francesi”. Il ricco cast include anche Aubrey Plaza nel ruolo di MG, per la prima volta diretta da Coen. L’incontro tra Honey e MG è diretto e sfocia in una frequentazione intensa e carnale. Anche qui si gioca con la rivisitazione dei grandi classici noir, con detective belli e dannati circondati da donne, ma senza vero amore.
Fino a oltre tre quarti del film, Honey Don’t! funziona. Atmosfere e scenografie sostengono l’idea di un noir “chiaro”, ambientato sotto una luce bianca e abbagliante che sostituisce il buio tradizionale del genere. L’estetica anni Settanta contribuisce a dare un tocco vintage, anche se riferimenti come il COVID ricordano che la storia è ambientata ai giorni nostri. I personaggi sembrano però muoversi come se vivessero in un’epoca passata, tra anni ’70 e ’80.
Il problema arriva nel terzo atto
Il problema arriva nel terzo atto: tutte le attenzioni riservate a scenografia, casting e scelte musicali si sgretolano di fronte a una conclusione rapida, con buchi di trama e poca costruzione. Coen sembra ricadere nello stesso difetto di Drive-Away Dolls, chiudendo il film bruscamente, quasi senza voler dare una vera risoluzione alla storia. Il risultato finale è una sensazione di sospensione e delusione, come se il film fosse stato interrotto prima di trovare il suo senso compiuto.
Le due protagoniste restano plasmate e vittime del loro passato, vivono i loro traumi e i percorsi che le hanno portate al presente. Può essere importante la sensazione che suscitano, ma la trama dovrebbe accompagnare la loro evoluzione e non dissolversi nella fase di scrittura.
Una nota positiva è sicuramente la colonna sonora: lo storico collaboratore dei Coen, tre volte candidato all’Oscar, Carter Burwell, ha composto una partitura che si intreccia perfettamente con le canzoni selezionate personalmente da Coen e Cooke. Il film stesso ruota attorno al classico rockabilly di Carl Perkins, Honey Don’t!, di cui gli autori hanno ottenuto i diritti e poi ci hanno costruito il film attorno.
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