Recensione della terza stagione di Star Trek: Strange New Worlds
Dopo una pausa di quasi due anni, la USS Enterprise torna finalmente a viaggiare verso l’ignoto nella terza stagione di Star Trek: Strange New Worlds, che approderà su Paramount+ il 17 luglio 2025. L’attesa è stata intensa, alimentata più che mai dal cliffhanger della scorsa stagione, con una parte dell’equipaggio rapita dai temibili Gorn e il resto costretto alla ritirata. Gli spettatori riprendono il viaggio esattamente da dove si era interrotto, ritrovando la sospensione, la tensione narrativa e lo spirito d’avventura tipici della saga. Questa nuova stagione, tra le serie trek più apprezzate del nuovo millennio, si presenta con dieci episodi, i primi cinque disponibili già in anteprima per la stampa. Già dalle prime battute è chiaro che ci troviamo davanti a una produzione che sa intrattenere come poche, pur lasciando spazio ad alcune riflessioni su cosa significhi oggi “andare oltre i confini”.
Tra episodi autoconclusivi e continuità narrativa
Strange New Worlds, come vuole la tradizione della saga, abbraccia con forza la struttura episodica: ogni avventura è una finestra su nuovi mondi, nuovi generi narrativi, nuove sfide per il suo equipaggio. La decisione di mantenere questo formato — ormai inusuale nell’era dei grandi archi narrativi delle serie streaming — si rivela coraggiosa. Gli episodi spaziano con audacia: si alternano incursioni nel romanticismo e nello humor, parentesi di terrore fantascientifico degne di Lovecraft, murder-mystery nel solco di Agatha Christie, fino a “meta-episodi” che giocano con la stessa storia della TV e dello Star Trek originale. L’abilità degli sceneggiatori, veri giocolieri dei generi, permette alla serie di evitare la stagnazione e regalare dinamismo, sorprese e varietà a ogni puntata.

La stagione si apre con un episodio ad alta intensità emotiva e suspense, l’attesa conclusione dello scontro con i Gorn, che tiene con il fiato sospeso e testimonia la maturità acquisita dagli autori nel gestire tanto il dramma quanto l’azione. Segue una sequenza di episodi che funzionano sia per i fan di lunga data che per i neofiti, anche se a volte questa scelta di inclusività rischia di penalizzare la profondità delle tematiche più “alte” che hanno reso celebre la saga.
Un cast solido tra evoluzioni, rimpianti e nuove dinamiche
Il vero motore della serie resta, come sempre, il suo straordinario cast corale. Anson Mount incarna un Capitano Pike che non è solo leader della nave, ma anche uomo dalle molte sfumature, capace di mostrare vulnerabilità e empatia che lo rendono unico rispetto alle altre storiche figure del franchise. La chimica tra i personaggi sul ponte di comando risulta ancor più rodata, ma ciò che sorprende è la capacità di questa stagione di strappare sorrisi e coinvolgere il pubblico grazie proprio alle relazioni tra i suoi protagonisti.
Ethan Peck è uno Spock sorprendente, capace di trasformare l’integrità e la razionalità vulcaniana in strumenti per esplorare nuove dimensioni emotive e romantiche (addirittura con vibrazioni da romanzo Austeniano!). Se alcune sottotrame — come le vicende sentimentali di Spock o il rapporto tra Pike e Batel — non sempre sono sviluppate quanto ci si aspetterebbe, va comunque riconosciuto un certo coraggio nel giocare con cliché e aspettative, concedendo agli interpreti momenti di sincero pathos e di autoironia.
Tra i personaggi in crescita, spiccano La’an (Christina Chong), che finalmente vive un’inedita leggerezza lasciandosi alle spalle i traumi passati, Ortegas (Melissa Navia), finalmente protagonista di un arco personale, e Chapel (Jess Bush), perfettamente a suo agio tra humor, vulnerabilità e un ritorno romantico “sorprendente” per i fan della serie classica. Peccato, invece, per figure come Una (Rebecca Romijn) e Uhura (Celia Rose Gooding), che in queste prime cinque puntate rimangono ancora un po’ troppo sullo sfondo, pur promettendo possibili sviluppi successivi.
Dove sono finite le grandi domande?
Se la produzione brilla per intrattenimento e varietà, la vera “mancanza” sta nel coraggio tematico che aveva reso leggendario Star Trek. In questa stagione, la serie sembra rinunciare quasi del tutto ad affrontare le grandi questioni etiche, sociali e politiche che hanno da sempre attraversato l’universo Trek — a partire dal tema dell’inclusione, con l’assenza ancora di veri personaggi queer in un futuro che dovrebbe essere illuminato dalla diversità. Poche anche le razze aliene, in favore di stilemi ormai molto “umanoidi”, e sporadici i tentativi di toccare argomenti come intelligenza artificiale o religione: spunti che però svaniscono prima di potersi trasformare in vero racconto.
Una scelta forse dettata dalla volontà di non rischiare troppo, in un periodo di incertezza anche produttiva (Paramount si avvia a chiudere la serie con una stagione finale più breve), ma inevitabilmente avvertibile da chi cerca, nel viaggio dell’Enterprise, non solo mondi nuovi ma anche una bussola morale. Eppure, non mancano alcune scene davvero memorabili: su tutte, un monologo di Celia Rose Gooding/Uhura che riesce a toccare il cuore dei valori di Star Trek, e il delizioso episodio-mistery diretto da Jonathan Frakes, con un irresistibile gioco di meta-riferimenti al cinema degli anni ’60 e alle origini del franchise.
Produzione e spettacolo: un universo che incanta
A livello tecnico, la terza stagione continua a stupire: le ricostruzioni digitali della plancia dell’Enterprise, gli effetti speciali sempre più convincenti, la precisione nella cura dei costumi e delle creature (tra practical effects e CGI) non hanno nulla da invidiare a grandi produzioni cinematografiche. Si respira passione e orgoglio in ogni dettaglio, capace di accontentare i fan più puristi quanto le nuove generazioni. La capacità produttiva di condensare il massimo impatto in soli dieci episodi, senza mai perdere la freschezza che caratterizza la serie, è ormai un marchio di fabbrica, come lo sono le continue citazioni e strizzate d’occhio ai cult del passato.
Uno sguardo al futuro della serie
Mentre una notizia amara accompagna questa terza stagione — la fine anticipata con la quinta stagione, ad oggi prevista come breve epilogo della saga —, quello che emerge dai primi episodi è il desiderio degli autori di celebrare e innovare, senza trasformare la nostalgia in un freno creativo. Strange New Worlds ricorda a ogni puntata perché Star Trek ha ispirato sei decenni di spettatori: la capacità di divertire, affascinare e commuovere, pur con qualche incertezza sulla direzione tematica.
La consapevolezza che le storie dell’Enterprise finiranno tra qualche anno aggiunge una nota agrodolce: i migliori episodi di questa stagione ci ricordano che, se la serie avrà il coraggio di tornare a interrogarsi sul presente oltre che a intrattenere, potrà davvero lasciare un segno nel cuore degli appassionati.
Rotta verso nuovi mondi (e nuove idee)?
Star Trek: Strange New Worlds stagione 3 si afferma come la più solida e spettacolare tra le recenti incarnazioni del franchise: visivamente smagliante, recitata con passione ed entusiasmo, ricca di ritmo e di inventiva. Tuttavia, alla ricchezza di idee, di personaggi e di spettacolo, fa da contraltare una certa ritrosia nel mettere in discussione il mondo e la società contemporanea, elemento che ha sempre reso Star Trek non solo un viaggio, ma uno specchio del nostro tempo. Con la fine già annunciata all’orizzonte, resta la speranza che questa Enterprise ritrovi la spinta a “osare di più”, in modo che il suo cammino non sia solo verso nuovi mondi, ma anche nuovi orizzonti di pensiero e cambiamento.
Non resta che sintonizzarsi dal 17 luglio su Paramount+ per salpare ancora una volta verso l’ignoto — nella speranza che, lungo la rotta, l’Enterprise torni a sorprenderci, nel cuore e nella mente.
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