È iniziata una nuova fase per la carriera di Edgar Wright, regista e sceneggiatore britannico presente alla 78° Mostra del Cinema di Venezia con l’ipnotico, onirico e disturbante film fuori concorso “Last Night in Soho”.
A metà tra horror e thriller post-moderno, l’opera in arrivo nelle sale italiane dal 4 novembre inaugura una regia ispirata e memorabile, attenta soprattutto all’impatto visivo ed estetico, e un po’ meno a quello narrativo.
A quattro anni di distanza da “Baby Driver – Il genio della fuga”, Wright si lascia alle spalle il sincronismo tra musica e immagini verso un linguaggio più astratto che punta all’idea del doppio e della contraddizione. È proprio grazie all’uso della “musica anempatica”, ovvero quella usata fuori contesto, che il regista rafforza il significato delle scene tenendo in serbo per lo spettatore improvvise nuove scoperte.

Da una parte la perdizione tra caos e violenza di una grande città come Londra, dall’altra la suggestione di romantiche ed eleganti musiche pop degli anni Sessanta. Un contrasto che prende forma con la storia della giovane e ingenua Eloise (Thomasin McKenzie), ragazza orfana che dalla Cornovaglia si trasferisce a Londra con il sogno di diventare una stilista, e poter trovare ispirazione dai mitici anni ’60 proprio quando, secondo Wright, “Soho era al centro del mondo”.
Una volta fuggita dallo studentato dove non si trovava a suo agio, Ellie si sposta nel vecchio appartamento della signora Collins (Diana Rigg). Ed è in quella camera illuminata di notte dalla luce di un neon rotto che la ragazza scopre di avere accesso a nuovi scenari straordinari. Incontriamo così il suo alter ego nascosto, visione colorata, sensuale e terrificante di una giovane aspirante diva di nome Sandie (Anya Taylor-Joy). Sofisticata e irraggiungibile, la vediamo mentre si esibisce nelle note di “Downtown” di Petula Clark alla disperata ricerca del successo.
Sottolineando l’incompatibilità tra le due femminilità, una ancora innocente mentre l’altra più adulta e disinibita, ha inizio l’allucinato viaggio di “Ultima notte a Soho”, racconto in cui luci e ombre si incontrano nel nostalgico confronto tra passato e presente, sogno e realtà. Superiamo quindi ogni schema predefinito verso un mondo decostruito che non solo rispecchia ed enfatizza quello reale, ma lo invade distorcendolo fino all’inverosimile.

A legare i numerosissimi elementi nella trama è lo sguardo d’insieme di Edgar Wright, autore che dà identità all’opera partendo proprio da una evidente e voluta mescolanza di generi. Nessun dettaglio è fuori posto, come non lo sono le citazioni sparse qua e là nella pellicola.
Partendo dalla visione moderna e delirante di “The Neon Demon” (2016) di Nicolas Winding Refn, Wright sfiora l’impianto favolistico di un classico dell’horror italiano come “Suspiria” (1977) di Dario Argento. Non a caso anche in “Last Night in Soho” bellezza e successo sembrano diventare l’unica cosa che conti davvero, anche a discapito della propria salute mentale e di quella degli altri.
A rappresentare al meglio la follia e il distacco dalla realtà sono le due protagoniste di questa storia, ovvero l’attrice neozelandese Thomasin McKenzie e la vincitrice di un Golden Globe come “Migliore Attrice” per La regina degli scacchi Anya Taylor-Joy.
Giocando con la loro interscambiabilità, il regista insegue la fortissima sinergia tra le due interpreti creando nello spettatore un potente stato di smarrimento. Disorientati e senza più saper discernere tra le visioni allucinate di Soho e quelle reali, ci prepariamo a un delirante e magnifico finale che, come in un sogno, può essere soltanto immaginato.
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